Le patologie del rachide cervicale
Quali sono i principali problemi ai quali può andare incontro il tratto superiore della colonna e in quali casi si trae beneficio dall’utilizzo di un’ortesi, ossia di un collare cervicale idoneo?
Per comprendere meglio le patologie alle quali può andare incontro il tratto cervicale, può essere utile qualche breve cenno di anatomia di questa zona. “Nella colonna” spiega Fabio Tresoldi, responsabile del reparto di Chirurgia del Rachide del Policlinico San Marco a Zingonia (Bergamo) – Gruppo Ospedaliero San Donato – si possono distinguere tre segmenti: quello cervicale, quello dorsale e quello lombare. Questi tre tratti si differenziano per la loro forma. La colonna vertebrale presenta, infatti, una forma ideale “a doppia esse” la curva verso avanti viene chiamata lordosi, mentre quella verso dietro viene detta cifosi. I due tratti verso avanti, ossia le due lordosi, sono quella cervicale e quella dorsale. Questa è una forma ideale derivata dall’evoluzione per una serie di distribuzione ottimale di carichi, infatti, questa è la forma che permette all’uomo di stare in piedi. “Scendendo nel particolare” – aggiunge Fabio Tresoldi – “quello cervicale è il primo tratto vertebrale. Per colonna cervicale si intendono le prime sette vertebre della colonna a partire dalla nuca e si identificano per la loro curva verso avanti, aspetto molto importante per le patologie di cui tratteremo in seguito, perché quando si verifica una modificazione di questa curva si possono associare diverse sintomatologie e anche (ma non sempre) dolore. Può testimoniarlo chiunque abbia subito un tamponamento stradale, soprattutto se donna e con un collo particolarmente esile o lungo: analizzando la radiografia cervicale eseguita al Pronto Soccorso in occasione di un incidente, si accorgerà di aver avuto una rettilineizzazione ovvero un’inversione di questa fisiologica lordosi del tratto cervicale. Non dobbiamo dimenticare che il tratto cervicale ha il compito importante di sostenere la testa, che è molto pesante, soprattutto come quantità di energia che può sviluppare sulla colonna cervicale, perché si muove esercitando diverse forze, centrifughe e centripete, e le linee lungo le quali si sviluppa questa energia cambiano e si modificano in continuazione. Quindi la colonna cervicale ha questo ruolo molto importante di sostenere la testa, la quale ha un impatto meccanico molto stressante su questa parte della colonna”. Continua il Dottore Tresoldi “Dal punto di vista anatomico, cercando di semplificare al massimo, si può immaginare tutta la colonna vertebrale come un tubo che fino a un certo punto, circa la dodicesima vertebra toracica, contiene il midollo spinale, mentre sotto a questo livello ci sono solamente le radici lombari. Questo contenitore ha come dei piccoli forellini sui lati da cui escono delle specie di “fili” che partono dal midollo spinale, che sono le radici nervose cervicali che arrivano fino agli arti superiori, cioè fino alle braccia e alle mani. Dentro a questo tubo passano dei fasci nervosi che vanno a servire gli arti inferiori, ma partono a 90 gradi dei fasci nervosi che vanno a servire invece gli arti superiori. Una problematica a livello della colonna cervicale può quindi interessare sia gli arti superiori che quelli inferiori. Interessante è notare che problematiche che nel rachide cervicale interessano gli arti superiori possono riguardare sia il movimento che la forza e il dolore, mentre a livello degli arti inferiori si tratta solamente di disturbi deficitari, che riguardano cioè la forza e la sensibilità, ma non il dolore. Il dolore agli arti inferiori, quando presente, viene quindi sicuramente dal tratto lombare, non da quello cervicale, mentre la sensazione di debolezza alle gambe o disturbi di forza e di equilibrio possono venire da un problema cervicale e si tratta delle cosiddette mielopatie.
Quali sono i principali problemi
“Nell’ambito delle patologie a carico del rachide cervicale”, ci spiega Tresoldi, “possiamo distinguere tra quelli di origine traumatica e quelle degenerative. Sostanzialmente però possiamo affermare che il meccanismo fisiopatogenetico alla base è legato allo stesso meccanismo, ossia alla modificazione della “scatola” del “contenitore”. La differenza sostanziale è che nelle patologie di origine traumatica queste modificazioni si realizzano in modo acuto e improvviso, da una colonna normale, per un trauma, come per esempio un incidente stradale, ci possono essere delle modificazioni, dalla distorsione del rachide cervicale fino a una vera e propria frattura. La più frequente modificazione è rappresentata dalla distorsione del rachide cervicale. A volte ci possono essere delle distorsioni cervicali, ossia dei colpi di frusta, così violenti da determinare delle piccole fratture di processi spinosi, che si chiamano processi trasversi o apofisi spinosi. Sono delle fratture di appendici della vertebra, anche se in sé e per sé la vertebra non è così coinvolta. Più spesso però si può incorrere nella classica distorsione cervicale, che consiste nel raddrizzamento o nell’inversione della curva cervicale stessa. Questo determina una condizione clinica che si può definire di instabilità: in pratica, il meccanismo è quello della brusca flesso-estensione, provocata per esempio da una frenata improvvisa o da un tamponamento per cui la testa viene spinta rapidamente in avanti e poi rapidamente di nuovo all’indietro. Questo comporta che la colonna cervicale, che è costituita da sette vertebre che fra loro sono connesse da dischi intervertebrali il tutto tenuto insieme da un numero di legamenti e di tendini, a seguito del brusco movimento va incontro a un’instabilità di tutto il sistema, senza arrivare alla frattura vera e propria, ma l’intero sistema ne soffre, cioè si stressa. A seguito di questo trauma, infatti, questi legamenti diventano più lunghi, meno solidi rispetto a prima. Tutto questo fa si che inizialmente la colonna si rettilineizzi, o addirittura che la curvatura si inverta, per la contrattura antalgica della muscolatura (il cervello infatti risponde al trauma, bloccando la muscolatura) in fase acuta, poi si possono formare nel tempo dei fenomeni degenerativi. Laddove vi è stato, infatti, uno stress meccanico, ci può essere la formazione di osso, con la presenza di osteofiti, che sono delle incrostazioni che si formano all’interno del tubo. Tipicamente gli osteofiti che si localizzano non nel mezzo, ma lateralmente, danno luogo alle brachialgie (quando la compressione si localizza cioè vicino al nervo di uscita), cioè dolore al braccio e disturbi di forza, che rappresentano la situazione più frequente come incidenza. Se invece gli osteofiti, ossia questi accumuli di osso che tendono a restringere la sezione del tubo, si localizzano nel mezzo, possono dare luogo alle mielopatie, cioè a compressioni del midollo spinale. In pratica, la natura del problemi che possono derivare è legata anche a una condizione di “geografia” cioè a davo si localizzano gli osteofiti e alle zone quindi in cui avviene e si realizza la compressione”.
Prosegue Tresoldi, “Passando invece ai problemi di natura degenerativa, le mielopatie sono in genere situazioni tipiche dell’anziano o comunque dell’età avanzata e tipicamente si presentano con difficoltà a camminare, con debolezza e con difficoltà nella minzione, cioè a urinare, disturbo spesso erroneamente confuso con i diffusi problemi alla postata tipici della stessa età. In pratica, i problemi di natura degenerativa, sono legati all’invecchiamento delle strutture della colonna, per cui viene in qualche modo ristretto il canale cervicale o i fori di cui abbiamo parlato in precedenza, con la conseguenza di formazione di incrostazioni, chiamate osteofiti. “Nell’ambito dei problemi di natura degenerativa”, - aggiunge il Dott. Tresoldi, “dobbiamo parlare anche della degenerazione dei dischi o delle strutture legamentose, che portano alla modifica della forma della colonna, e quindi anche del tratto cervicale, per cui il collo si irrigidisce e cambia forma e possono manifestarsi alcuni disturbi. E’ importante, però, in questa sede sottolineare il concetto che non sempre le deformazioni del rachide si accompagnano alla clinica: spesso le modificazioni non comportano dolore e per questo non vengono diagnosticate. L’esame che rileva questi problemi, come le mielopatie, è la risonanza magnetica nucleare, ma vi si ricorre di solito solo quando il paziente avverte dolore o si sono manifestati disturbi neurologici, come perdita di forza agli arti”. “I fenomeni degenerativi sono rappresentati dalle ernie, dalle discopatie cervicali che possono verificarsi con il passare degli anni. Ma, in un certo senso, si può affermare che tutte quante queste problematiche abbiano anch’esse un’origine traumatica, nel senso che all’origini dei problemi degenerativi cervicali c’è sempre un cattivo utilizzo del tratto cervicale, ossia traumi non acuti, come il cattivo posizionamento della testa, che a lungo andare, con il passare degli anni, determinato questi problemi, che sono gli stessi provocati in modo acuto da un incidente. Un’attività lavorativa stressante, che impegna molto la testa in una posizione scorretta, incide molto di più sul tratto cervicale che su quello lombare. Per questo sarebbe importante modificare quelle cattive abitudini che a lungo andare determinano uno stress sul colo e, in particolare, sul tratto cervicale.
L’ernia cervicale rappresenta una delle conseguenze di questo stress: tra le vertebre infatti ci sono dei cuscinetti che si chiamano dischi intervertebrali. L’ernia si determina quando la parte interna del disco, che si chiama nucleo polposo, fuoriesce lateralmente, andando a comprimere una radice cervicale e provocando quindi dolore”. “Anche se il termine fa paura non tutti sanno che le cosiddette ernie cervicali “espulse” in realtà hanno una percentuale di regressione spontanea molto alta. Circa l’80% di esse, infatti, regredisce da sola dopo circa venti giorni dalla fase acuta in cui si manifesta la brachialgia, cioè il dolore al braccio. Questo si spiega molto facilmente dal punto di vista anatomico perché, quando si verifica un’ernia espulsa, esce il nucleo polposo che ha una grandissima percentuale di acqua e fuori dalla sua sede si disidrata in poco tempo”.
Quando serve un’ortesi
“Sia nel caso di una distorsione cervicale, ossia di un dolore di origine traumatica, sia nel caso di un’ernia espulsa, ossia di una patologia degenerativa, con presenza di dolore al braccio, l’utilizzo di un’ortesi, ossia di un collare cervicale è utile”, spiega Tresoldi. “Essa non è utile come elemento terapeutico prolungato in caso di problemi degenerativi, perché a lungo andare tende a indebolire il sistema muscolare che sostiene la colonna. Invece è fondamentale utilizzare un’ortesi cervicale nella fase iniziale di una sintomatologia acuta cervicale”. “Questo perché nel traumatismo”, aggiunge Tresoldi, “il collo ha subito un violento stress meccanico e deve essere rimesso nella sua posizione fisiologica, vale a dire naturale: bisogna cioè cercare di ridargli la sua naturale curva verso l’avanti (detta lordosi) e lasciarlo in questa posizione per un po di tempo in modo che le strutture legamentose che sono stare tirate siano a una lunghezza ideale e intanto inneschino i meccanismi riparativi al loro interno. Diversamente, se non si portasse l’ortesi, ossia il collare cervicale, le strutture legamentose (che sono due grossi legamenti, uno davanti e uno dietro e si chiamano longitudinali) si riparano ugualmente, ma diventerebbero più lunghi, perdendo alcune caratteristiche elastico-meccaniche funzionali. Perderebbero cioè la loro funzione di trattenere, dato che diventerebbero più lunghi. Se questo sistema, infatti, non è ben teso si muove in continuazione e non si ripara nel modo ottimale, con la conseguenza che il collo diventa più instabile e quindi tende a muoversi di più”.
“Il collare cervicale ideale è quello di tipo Philadelphia, con un appoggio mento-sterno: con questo tipo di ortesi, infatti, la testa rimane leggermente stesa, perché il collare ha la funzione di immobilizzare la testa nella posizione ideale, leggermente in avanti. L’ortesi deve essere portata per un periodo sufficiente, ossia almeno quindi giorni continuativamente, cioè sia di giorno che di notte. Indossarla è una misura terapeutica assolutamente indispensabile e ideale quando per esempio si prende il classico colpo di frusta, soprattutto per le donne che hanno una muscolatura più debole e soprattutto se il collo è lungo, perché aumenta la leva”.
“nell’ernia espulsa”, prosegue Tresoldi, “è altrettanto consigliabile l’utilizzo di un collare di tipo Philadelfia: in questo caso perché, riducendo notevolmente i movimenti, riduce al tempo stesso anche l’impatto meccanico tra l’ernia, ossia il pezzetto che è espulso, e la radice cervicale per ridurre dolore. Si tratta comunque, come già si è spiegato sopra, solo di una questione di tempo perché nell’80% dei casi l’ernia cervicale espulsa si riassorbe spontaneamente in poco tempo, circa venti giorni. Il collare in questo caso deve essere portato fisso per quattro-cinque giorni e poi gradualmente occorre cominciare a toglierlo di notte perché bisogna tenere ferma la zona cervicale senza arrivare però a bloccare la muscolatura, che altrimenti si indebolirebbe troppo. “Il collare di tipo Philadelfia”, conclude Tresoldi, “deve essere utilizzato anche in tutte le condizioni post chirurgiche che lo richiedono. Per esempio, nel caso della mielopatia cervicale, che comporta una compressione sul midollo, nel post operatorio si utilizza il collare per circa venti-trenta giorni. Si ricorre alla chirurgia al primo comparire di problemi neurologici, perché la chirurgia è in grado di arrestare unicamente la professione del disturbo, non lo fa migliorare. Nel caso della chirurgia, l’utilizzo del collare serve a far fusione: siccome il problema è di natura compressiva e la chirurgia deve liberare questo buco, una volta aperto e decompresso, togliendo parte della vertebra, al posto di quello che si toglie occorre mettere dei supporti, dei sostegni: questi “pilastrini” che si mettono hanno bisogno di un po di tempo per fondersi tra di loro. Questo processo risulta tanto più efficace, tanto più questi punti di connessione rimangono fermi e immobili e il collare ha proprio questa funzione, quella di far si che la fusione sia ottimale”.
Articolo pubblicato su Ortopedici e Sanitari
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